lunedì 8 gennaio 2018

Non stancarti di andare (o di leggere)


Teresa Radice e Stefano Turconi, Non stancarti di andare, Bao Publishing, 2017.


Ho comprato la mia copia di Non stancarti di andare lo scorso 21 dicembre, alla presentazione tenuta da Stefano Turconi presso lo Spazio Natale di Emergency a Milano, e mi sono fatta fare la bella dedica che vedete qua sotto. Ma del fumetto avevo già sentito parlare, e molto bene. Le mie aspettative erano quindi piuttosto alte, nonostante sapessi solo che fra gli argomenti trattati c’erano la Siria e l’attesa di un bambino.





La storia raccontata dal fumetto è in effetti affascinate e stratificata: 320 pagine molto dense, che raccontano il viaggio di quattro generazioni di donne; a queste si aggiunge la traversata di Ismail, che dalla Siria vuole tornare in Italia, dalla sua bella Iris o Nur, come lui ama chiamarla. Le storie, che si svolgono dagli anni Trenta del Novecento all’inizio del 2014, si accavallano senza confondersi, grazie alla maestria grafica di Stefano Turconi e all’abilità di Teresa Radice nella gestione dei flashback, sempre piazzati al momento giusto. Probabilmente, una delle migliori storie dell’anno.



Ma, purtroppo, c’è un ma.
Insieme ai disegni, già narrativi di per sé, ci sono tantissime parole. Ci sono tavole interamente scritte (trascrizioni di lettere, di vari personaggi), insieme a tanti balloon, a volte lunghi e densi. Gli stessi Turconi e Radice, presentando le avvertenze al fumetto sul proprio blog, hanno chiarito che è possibile saltare le pagine che riportano le lettere scritte da Iris al proprio futuro figlio. Ma, personalmente, a un certo punto ho smesso di leggere anche le didascalie, credo intorno a pagina 200. Mi distraevano dalla storia, allontanandomi dai personaggi. Mi sono soffermata sui bellissimi disegni, sulla narrazione che già è contenuta in essi; ho limitato la lettura dei testi a un'occhiata, dopo aver osservato le tavole per intero, per verificare che non ci fosse qualche informazione che non avevo colto dalle immagini.



In generale, il fumetto di Turconi e Radice racconta molte cose; le parole ne vogliono dire troppe. In un fumetto, ritengo controproducente appesantire le didascalie di aggettivi, non serve esplicitare i pensieri di ogni personaggio, e ovviamente non è necessario descrivere un’immagine che è già presente nel testo (questo in realtà avviene solo poche volte). Si tratta di un caso, oggi piuttosto raro, di fumetto in cui il testo prevale sull’immagine: ed è un peccato, perché le immagini di Non stancarti di andare sono molto belle, evocative, narrative, con la capacità di giocare con le luci, le ombre e le atmosfere. Praticamente perfette, quando vengono lasciate parlare.



C’è un altro motivo per il quale mi dispiace che le parole di balloon e didascalie abbiano tanta rilevanza in Non stancarti di andare. Una parte importante della storia riguarda la lingua araba: i suoi suoni (“sei molto sexy quando mi parli in arabo”, dice a un certo punto Iris a Ismail), ma soprattutto la sua calligrafia – i due si sono conosciuti meglio proprio grazie a un corso. Per chiarezza, tutte le conversazioni avvengono in italiano (anche se sarebbe stato interessante sapere come si esprimono alcuni dei personaggi, cresciuti in più continenti). In questo campo, credo che il miglior risultato sia stato raggiunto da Habibi, di Craig Thompson, in cui la scrittura araba riusciva a farsi disegno, parola e cultura; in Non stancarti di andare ci sono alcune punte brillanti, soprattutto verso la fine, che sicuramente hanno richiesto un grande studio agli autori. Però la calligrafia araba non trova spazio. Rimane sommersa dallo stampatello e dall’italiano, come un oggetto affascinante nascosto dalla sua spiegazione – come se guardando un tramonto non ne vedessimo i colori, ma pensassimo alla rotazione terrestre.



D’altra parte, quest’ansia di raccontare i personaggi finisce per rivelare una debolezza/forza del fumetto. I personaggi presenti, comparse escluse, sono quasi tutti protagonisti: di loro vengono esplicitati storia, pensieri e motivazioni, basati in buona parte sull’esperienza autobiografica – come nel caso di Iris, la futura mamma, e delle sue lettere all’ “amore minuscolo”, scritte in realtà da Teresa Radice per il proprio figlio, o della storia di padre Saul, omologo a fumetti di padre Paolo Dall’Oglio, conosciuto personalmente da Turconi e Radice nel 2007. La storia di Ismail è per forza di cose la meno autobiografica, visto che narra del periglioso attraversamento del Medio Oriente e del Mediterraneo. I passaggi tecnici, dalla Siria a Lampedusa, sono abbastanza dettagliati. Ma ciò che conta è che Ismail, per tentare di sopravvivere, è costretto a compiere atti tremendi: deve lasciar morire i compagni di viaggio, persino impedire che vengano soccorsi. Li deve derubare, deve letteralmente galleggiare sopra di loro nel Mediterraneo. Sono azioni che lo segnano nel fisico e nella mente: ma nei suoi pensieri espliciti, tutti rivolti a Iris o al racconto di quanto avviene, quasi non ne fa cenno. Nel suo caso, solo nel suo caso, la narrazione del tormento è affidata del tutto alle immagini: richiede una lettura fra le righe, la collaborazione attiva del lettore che lì deve inserire i propri sentimenti. Forse per questo la disperazione di Ismail risulta davvero credibile: nel mio caso, mi è rimasta più impressa della “speranza” e dell’”attesa”, che pure vengono ricordate di pagina in pagina. 



Può essere che attendere sia l’infinito del verbo amare, come recita la quarta di copertina; ma di sicuro raccontare è un infinito ben diverso da mostrare.




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